meets
Rael’s Twitch Talk! Limited Edition
- Editoriale
Questa che avete tra le mani è un’edizione molto speciale della Rubrica, un numero da collezione consegnato a mano dal caporedattore -che sarei io- ai più fedeli e stretti collaboratori con cui abbia mai avuto il piacere di lavorare: voi NDZiani!
Quando mi è stato chiesto di stilare una Top 10 dei miei videogiochi preferiti di sempre, non lo nego, ho perduto il mio proverbiale aplomb e, come colpito da un triplo rosso, sono andato nel pallone: strano a dirsi, ma in tanti anni di servizio non mi sono mai posto tale quesito, preferendo concentrarmi sulle saghe in generale. Ho passato molte notti insonni bevendo caffè e fissando l’orizzonte dalla finestra della sede ormai vuota della Rubrica, pensando al modo giusto per affrontare la prova che la luminosa Raela, starlet di NDZ, ci aveva così energicamente proposto.
“Non vedo l’ora di leggere le vostre top!” aveva detto “E mi raccomando: seguite il vostro cuore!”
Le parole di Rael riecheggiavano nel mio testone cervellotico.
E così capii: la mia top 10 non sarebbe stata la classica, fredda, passerella di titoloni blasonati, nominati e rinominati, forse non sarebbe stata nemmeno una top 10, ma una cosa non le sarebbe mancata: il cuore.
Nelle prossime pagine troverete una mia personale classifica con giochi forse imperfetti, ma che hanno significato molto per me e mi hanno reso la persona che sono adesso, il caporedattore che voi tanto amate. Essendo eternamente indeciso anche sulla loro collocazione definitiva, troverete alcune posizioni un po’ fluide, ma mi premunirò in modo che vi appaia lampante come un fulmine quello che intendo veramente.
A voi, atleti di NDZ, lascio questo numero in edizione limitata della Rubrica, dai toni più intimistici e personali, sperando che vi divertiate a leggerla come io mi sono divertito a scriverla.
~Nonno
- Ultima Posizione abbastanza certa

La sentite la musica?
L’anno è il 2000 (o il 2001, chi se lo ricorda): dopo che il temuto Millennium Bug si risolveva in una bolla di sapone, il mondo si affacciava al nuovo millennio trepidante e speranzoso. Se Bettino Craxi moriva latitante in Tunisia, a Washington si assisteva alla vittoria di George Bush Jr. contro Al Gore. I Linkin Park si affermavano sul piano musicale mondiale, mentre nei cinema faceva capolino il primo film della saga di Harry Potter; nel frattempo, sul piccolo schermo trionfavano I Soprano e Sex & the City, e per le strade impazzava la moda dei pantaloni a vita bassa e delle cinture con la fibbiona D&G.
Il breve flirt con il N64 per me si era precocemente concluso per due insormontabili motivi: un pad tricornuto troppo scomodo per un piccolo bamboccio, e la scarsità dei giochi disponibili nei negozi in zona (e la relativa onerosità per un passatempo all’epoca ancora “nuovo”). Seguendo l’esempio degli amici e la pressione sociale, fu deciso di ripiegare su una PS1. Innumerevoli i vantaggi: accessori non ufficiali a iosa, la fantomatica “modifica”, la facilità con cui si recuperavano giochi piratati. Alla tenera età di 9 anni avevo una predilezione per i giochi Looney Tunes (i due Bugs Bunny in viaggio nel tempo) e quelli targati Disney, su tutti Hercules, A Bug’s Life e Toy Story 2 (adventure game fenomenale con musiche che ricordo ancora oggi).
Unica eccezione, la mascotte mancata Sony - targata Naughty Dog: Crash Bandicoot. Pur possedendo il primo capitolo, era troppo difficile per i miei acerbi standard, mentre i due party game (Crash Team Racing e Crash Bash) incontravano decisamente il mio gusto e quello dei miei amici delle elementari.
Inutile dilungarsi: il mio primo, vero gioco di kart è legato a doppio filo a tutta una serie di ricordi che credevo cancellati ma erano soltanto sopiti. Il dottor Cortex mi accolse al lato oscuro, e assieme a lui trascorsero innumerevoli pomeriggi a casa del mio migliore amichetto dell’epoca, tra competizioni infuocate, vittorie strappate, fino a prevalere su Nitro Oxide, che tanta rabbia ci scatenava quando non rispettava il via alla linea di partenza. CTR era “solo” questo: una modalità storia ripetuta all’infinito, gare, battaglie, risate e amicizia.

Ritrovare un vecchio amico dopo 20 anni.
Facciamo un salto di 20 anni, anzi fermiamoci poco prima: è il dicembre 2019, l’ultimo mese di un anno per me atroce, probabilmente il peggiore che abbia mai vissuto. Sono gli ultimi giorni del decennio, e una sera, perlopiù per migliorare un umore malmestoso, decido di scaricare su Switch il chiacchierato remake di CTR, Nitro Fueled. Avvio il gioco.
Penso di non aver mai vissuto un’esperienza simile.
È come se un enorme lucchetto in qualche angolo remoto del mio cervello avesse ceduto, lasciando straripare centinaia di memorie che erano ancora lì, in attesa di venire fuori, come una marea improvvisa. Per i primi 10 minuti del gioco, dallo schermo del titolo con la sua musica, all’inizio della story mode, fino alla Crash Cove, ho avuto letteralmente i brividi per tutto quello che stavo (ri)provando: non ero più il farmacista palloccoloso stracciato di cazzo per qualsiasi problema, ma ero di nuovo soltanto un bambino con la sua voglia di stupirsi ed essere stupito dalle minime cose.
Così come restavo meravigliato ricordando ancora il layout di alcune piste, o la posizione dei pannelli turbo, o constatando che alcune musiche mi sono rimaste marchiate a fuoco nella memoria (Papu’s Pyramid, Cortex Castle, Hot Air Skyway su tutte).
Ci è voluto un po’ per riprendere mano coi comandi, ma alla fine vedere quel 100% vicino al faccione malefico di Cortex è stata una delle sensazioni più soddisfacenti mai provate, non per la difficoltà in se ma per essere riuscito a vendicare una delle imprese che la mia controparte infantile non era mai riuscito a raggiungere (sbloccare N. Tropy è ancora un miraggio ma vabbè).
Come già detto nell’altro topic, sono entrato nel gioco quando ormai gli aggiornamenti mensili di CTR:NF volgevano al termine, e quando ancora non avevo l’abbonamento per l’online, perciò fisiologicamente dopo un po’ l’ho messo da parte, anche se sporadicamente rientro per farmi una corsa senza impegno. Ovviamente non ho un piglio professionistico capace di notare alcune eventuali falle più o meno grosse in questo gioco (scommetto che da qualche parte nel mondo esiste un forum parallelo che definisce CTR come un Giocodimmerda™), ma io lo inserisco nella mia top per quello che è: un gioco che per la mia infanzia ha significato tantissimo, preso, migliorato e ripulito sotto ogni aspetto, con l’aggiunta di decine di personaggi, piste, coppe, modalità, qualsiasi cosa ti venga in mente per saziare la fame di kart.
Quindi perdonatemi se dò inizio al mio post con un gioco di kart che non sia QUEL gioco di kart, di quella specifica mascotte di quel brand videoludico. Ma devo arrendermi a un gioco che mi ha fatto capire che in quanto esseri umani siamo minuscoli in confronto a quello che è custodito nella nostra scatola cranica, e di come i nostri cervelli possano farci regredire a bambini soltanto bombardandoci di ricordi.

Arriva da molto lontano, pensa di essere il migliore sul kart e vuole dominare il mondo. Chi ci ricorda?
- 6ª Posizione perlopiù a parimerito con la prossima
Eddai Rael aprilo, sono solo 30 secondi.
Se c’è una cosa che mi è rimasta impressa del 2002 sono le fantastiche pubblicità del GameCube che giravano sia in tv che sulle riviste, quando Nintendo non aveva ancora abbracciato del tutto il concetto di family friendly estremo, e cercava di posizionarsi sul mercato come marchio cool per gli adolescenti. Su di me fece particolarmente presa lo spot con la mega fregna gothic dedicato a Luigi’s Mansion, e questo potrebbe spiegare un sacco dei miei gusti odierni, ma tant’è: all’inizio di quella magica estate il mio regalo per la promozione fu la nuova console targata Nintendo + Smash Bros. Meele + Luigi’s Mansion. Mentre ne scrivo ricordo ancora perfino l’odore del libretto di istruzioni!
La magione mi folgorò, ancorandomi per anni al mondo Nintendo e al Mushroom Kingdom. Mario 64 e Mario Advance mi avevano divertito, ma li avevo visti soltanto come dei videogiochi qualsiasi, Mario era soltanto un tizio a caso che mi trovavo a controllare e che si muoveva in un mondo in cui non mi faceva troppe domande.
Seguire Luigi invece era diverso: lui esprimeva tutto un range di emozioni dall’ovvia paura, alla preoccupazione, la curiosità, il sollievo, la gioia; in più interagiva con l’ambiente circostante in una maniera che non prevedeva soltanto salti e mazzate, ma effettivamente indagando su quello che era un vero e proprio mistero. Per la prima volta mi accorgevo di come comprimari e nemici avessero la loro personalità ben definita, tratto che in realtà accomunava un po’ tutti i giochi di Mario dell’epoca (Sunshine, Paper Mario, Mario & Luigi, perfino Mario Party 4 con i suoi premi personalizzati o i kart specifici di Double Dash mi sembrava dessero carattere ai singoli personaggi).

Fantastico cameo di Wariuzzo, qui in versione Cortesie per gli ospiti.
Dal punto di vista del gioco in se, non posso non nominare alcuni momenti salienti: l’inseguimento infinito all’ultimo Boo di Boolossus, la lotta contro King Boo effettuata in tandem con un amico (lui colpiva Bowser, io aspiravo), i continui tentativi di ottenere il rank S, impresa in cui ho trovato successo soltanto di recente, nello stesso anno in cui hanno annunciato il remake per 3DS. È in quest’occasione che mi sono reso conto di quanto tenessi a questo gioco, felicissimo di averlo in formato portatile per poterci giocare in maniera più agile rispetto alla versione casalinga e averlo sempre con me, vendicando anche il ribrezzo che mi aveva fatto provare il secondo capitolo della saga. Vendetta portata a compimento con il 3, giocone coi controcazzi che riprende perfettamente le atmosfere del capostipite, aggiungendo anche gradevolissime variazioni sul tema.
Spendo due parole anche su uno dei miei personaggi preferiti, forse il preferito, del brand: King Boo, l’unico vero sociopatico del Mushroom Kingdom. Quando non assume la forma del classico boo con la corona random, King Boo diventa un fantasma con un’espressione malsana, un brilloccone in testa e due occhiaie scavate con l’escavatrice. In tal caso è meglio scappare: in questa forma diventa protagonista di inquadrature inquietanti e veri e propri jump scare, fino a diventare totalmente folle e violento nella sua vendetta contro Luigi, come si vede nel 3.
Per un periodo della mia vita sono stato letteralmente ossessionato da questo gioco, finendolo e ricominciandolo di continuo; ma soprattutto, prima di Luigi’s Mansion ero un mocciosetto che aveva terrore di ogni cosa che fosse anche solo lontanamente horror, mentre entrare e uscire dalla mansion ha segnato la prima volta in cui ho affrontato le mie paure seppur in maniera molto blanda, fino ad arrivare ad oggi in cui sono affascinato da qualsiasi aspetto macabro di qualunque prodotto di consumo (mi spiego meglio con un esempio: quando iniziano eventi di Halloween e ovunque ci sono zucche, scheletri e cose spooky).
Ringrazio Luigi’s Mansion perché è stato il mio primo, vero battesimo di fuoco del mondo Nintendo, e perché mi ha fatto “crescere” segnando il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Ho il mal di mare.
- 5ª Posizione più in alto della precedente solo per motivi di “prestigio” (ma a cosa conta il prestigio in una classifica del genere, chi lo sa)

In the navy, you can sail the seven seas~♪
Newsflash: Wind Waker è stato il mio primo Zelda in 3D (Ocarina giocato in maniera troppo frammentaria per essere definito tale), nonché il primo Zelda che ho concluso (avrei finito A Link to the Past solo qualche mese dopo).
Non ho mai capito tutte le critiche catalizzate da questo palese capolavoro: posso solo democraticamente dedurne che la gente è totalmente deficiente.
Mi piace che Link non sia adulto, ma sia un bambino con occhi giganti: all’epoca mi permise di empatizzare ancora di più con un personaggio della mia età che non lesinava sull’esternare emozioni ed espressioni, come la gioia di aver sconfitto un boss, la faccia imbronciata in presenza di un personaggio antipatico, o quella profondamente triste mentre saluta la nonna partendo alla ricerca della sorellina.
Il me dodicenne si immedesimò immediamente con lo sconforto nell’abbandonare l’isola natìa e col terrore di avventurarsi letteralmente SUBITO e DISARMATO nel quartier generale del cattivo finale, alla mercé di guardie-maiali che reagivano ad ogni passo che non fosse abbastanza furtivo.
Mi piace tuttora la scelta del cel-shading, tecnica che si sposa perfettamente col tipo di fiaba delicata e “romantica” che si va a raccontare, non un semplice gioco con l’ambientazione fantasy. E che soprattutto rende divinamente nel rappresentare la distesa di mare sconfinato che è il mondo di gioco.
Quanto mi piace quel mare sconfinato, è forse difficile riportarlo a parole. Superata la delusione iniziale nello scoprire che le isole abitate erano davvero poche, mi resi conto che erano proprio le isole più piccole a riservare le sorprese più grandi: ognuna di esse accendeva il mio spirito d’avventura e lo stupore della scoperta, alla ricerca di tesori e segreti nascosti nei loro anfratti. Forse le parti che più ricordo con emozione sono proprio il momento dell’approdo su un atollo sconosciuto, e il relativo salpare a esplorazione conclusa, delle piccole scintille che mi facevano sentire proprio come se stessi intraprendendo un’avventura per mare, come in un romanzo. E quelle acque che i più insensibili additavano come vuote erano in realtà piene di eventi: barche mercantili, navi da guerra, vascelli fantasma, calamari giganti, tempeste improvvise, tifoni di passaggio, non c’era modo più “realistico” per raccontare un viaggio tra i flutti, e ho amato ogni momento. Finanche l’alienante subquest dei pezzi di Triforza non è riuscita ad annoiarmi, non avendola vissuta come una maratona da completare il prima possibile, ma godendomi una parentesi di relativa libertà dalla trama in cui ne approfittavo per scandagliare ulteriormente quel mondo di gioco che tanto mi affascinava. O anche solo semplicemente modificare la direzione del vento, e viaggiare per mare senza meta, accompagnato dai gabbiani.
Potrei soffermarmi ore su quanto ogni minimo personaggio sia reso benissimo, ognuno coi suoi piccoli drammi (aspetto comune anche a Majora, al secondo posto nella classifica dei miei Zelda preferiti). Ma a restarmi impressi furono i due regnanti, due antitesi, nemesi l’uno dell’altro: Ganondorf, per la prima volta non ritratto soltanto come malvagio sovrano del male, ma figura tragica gelosa del vento di Hyrule, e che cercando una condizione migliore per il suo popolo ha perso di vista la cosa più importante, il suo fine distorto dall’ingordigia di potere; il re di Hyrule, per la prima volta personaggio con personalità propria, guida presente e vestigia di tempi antichi, sovrano di una terra troppe volte contesa, ormai drammaticamente deciso a lasciar andare, lasciar annegare tutto il passato, compreso se stesso. Le battute finali del gioco, con entrambi i monarchi a confronto, le ricordo potentissime, un impatto devastante, e mai avrei pensato di provare una profonda tristezza abbandonando al loro destino un demone-suino e un regnante finora marginale.
E in più, altri mille, piccoli episodi che mi tornano alla mente con tenerezza, e che fanno valere di diritto a Wind Waker la sua posizione in questa classifica: già da piccolissimo avevo la fascinazione dei viaggi per mare, cementata in maniera ancor più prepotente anche grazie a questo Zelda. Ed è forse grazie a questo gioco che iniziai ad acquisire una diversa prospettiva sul viaggiare (da piccolo visto come una sfacchinata massacrante), maturando una certa curiosità nel vedere posti nuovi e la convinzione assoluta che sia un tassello necessario nella crescita personale e nell’ampliare le proprie vedute.
Non posso non essere felice nel constatare che Wind Waker sia stato vendicato dalla storia, e sia ora uno dei Zelda più amati dai fan della saga.
Avevo ragione.

Je suis l'empire à la fin de la décadence.
(Didascalia assolutamente non inserita soltanto per far parlare Rael in francese)
- 4ª Posizione oggettivamente più in basso delle due precedenti, il cuore però suggerisce di metterlo qui

The song “Stale Cupcakes” is inspired by a mother's love for her son. She used to bake cupcakes for him on his birthday, but one day he "went away to live with the animals."
The cupcakes got stale, but she still writes to him.
È il 2004: possedevo il GameCube da due anni e ancora non sapevo che sarebbe stata la console casalinga su cui avrei passato più ore in assoluto, e che anni dopo avrei riempito di suoi giochi una top 10 su un forum moribondo ma ancora attaccato al respiratore. Possedevo tantissimi titoli che consideravo meravigliosi e che non mi stancavo mai di giocare (in maniera ammetto quasi alienante), ma all’orizzonte si stagliava una calma piatta: erano gli anni di NRU, e quella redazione di venduti da mesi non faceva che creare hype per un gioco misconosciuto di nicchia, che nemmeno lontanamente mi sarei sognato di provare. A chi interessa vivere in una foresta con degli animaletti a far nulla, dopotutto? Alle vecchie zie dei suddetti redattori?
Quando uscì la recensione, non so nemmeno io cosa mi colpì precisamente: c’era veramente tanto amore in quelle parole (cosa strana per un gioco che non fosse Mario o Zelda, secondo gli standard di quella rivista di venduti), ma sopratutto lasciavano trasparire una particolare, immensa pace interiore. Una sezione dedicata al gioco fu inserita già da quel numero, dandomi un’idea più precisa di cosa avrei trovato: un mondo parallelo al nostro, che segue i nostri orari e le nostre stagioni, e che cambia di conseguenza. Ma con molte, molte meno rotture di balle. Ne rimasi affascinato.
Confrontandolo con i titoli più moderni, Animal Crossing era terribilmente limitato: le fantastiche opzioni di decorazioni degli esterni si riducevano ad alberi e fiori (e nemmeno tanti), la casa si estendeva solo su tre piani e il debito richiedeva ere geologiche di ripagamento, perché ere geologiche servivano per far soldi, un tempo in cui i ricavi provenivano solo dalla vendita di pesci e insetti.
C’era però, innegabilmente, molto cuore. Razionalmente, posso trovare dei punti di forza in una mappa enorme, quasi interamente ricoperta dalla natura, che donava la sensazione di muoversi davvero in una foresta; gli animaletti abitanti del villaggio avevano un forte carattere (come si può vedere sotto) e si prodigavano per riempire la tua giornata in mille modi con tante piccole subquest, prima che diventassero dei simil-bot spara-frasi tutte identiche; alcune meccaniche di gioco forse erano ancora grezze, ma indubbiamente davano personalità a un gioco che rappresentava una vera e propria ventata di freschezza, del tutto dissimile da qualsiasi cosa fosse stata fatta precedentemente.
Col senno di poi, nonostante il titolo per Switch sia l’esperienza definitiva della serie, reputo quello per Cubo l’Animal Crossing più rilassante, proprio per i suoi limiti e la mancanza delle mille cose “da fare” presente nei titoli più recenti. Non c’erano ancora routine a cui sottostare, o voci da spuntare entro un tempo limite. Bastava viverla con calma.
Già dagli albori era presente una forte componente socializzante, sotto forma di scambio di oggetti (tramite lunghe password autogenerate): fu per rispondere a questa esigenza che approdai sulla buonanima del primo forum sul sito Nintendo, dove iniziai a conoscere le prime persone online. Ci furono poi le prime chat, seguite dall’esodo su un piccolo forum forumfree dedicato specificatamente al gioco, che in seguito si evolse in un forum di fan Nintendo a 360º. E da lì, non ricordo in che modo e perché, approdai infine su NDZ. Perciò, tramite un complesso meccanismo di specchi e leve, devo ad Animal Crossing il fatto che io stia scrivendo questo wot, qui e ora.
Che bizzarra successione di eventi.

POV: ti sei appena iscritto su NDZ.
È il 2004: è il mio terzo e ultimo anno delle medie, e non ho molti amici. Sradicato a forza dal contesto del mio paese natale e finendo in una scuola nuova, con gente nuova, in una città più grande, non ero riuscito a creare forti legami.
Non è la classica storia del ragazzino che si rifugia in un mondo di fantasia per sfuggire a una realtà deludente (o di una ragazzina che si colora i capelli di rosa perché ce li ha bianchi), ma non potevo non pensare con una certa fascinazione all’idea di quanto sarebbe stato bello vivere da solo, e stringere amicizie con animali sproporzionati soltanto in virtù di una prossimità geografica.
Quel moccioso un po’ solo non poteva ancora saperlo, ma quella città che guardava con timore ora è diventata la sua casa, e da lì a 10 anni avrebbe coronato il suo sogno di fare i bagagli da un giorno all’altro e di andare a vivere da solo. Non voglio dare tutto il merito ad Animal Crossing per la mia famelica voglia di indipendenza, ma indubbiamente ci ha messo una buona mano.
Un’altra lezione impartitami subconsciamente da questo gioco, e che avrei messo a frutto da lì a poco al liceo, è che il carattere è una delle doti più importanti, e che può essere espresso anche attraverso del sano sarcasmo o battute sagaci: i villagers talvolta sapevano essere degli autentici diti arculo con i loro commenti sprezzanti, ma non mancavano di dimostrare concretamente la loro amicizia con improvvisi slanci di generosità. Negli anni ho imparato che ironia e autoironia, condite con osservazioni pungenti, sono doti molto apprezzate da chi le sa cogliere, e che si può essere amichevolmente dei diti arculo se poi si dimostra con i fatti quanto si tiene a una persona.
In ultima battuta, forse la cosa più importante che ho imparato da tutta la serie di Animal Crossing, è festeggiare Halloween come se fosse Natale e cioè per un mese intero, partendo dal 1° Ottobre con decorazioni a tema e musiche lugubri.
Per vari motivi, questo gioco a cui inizialmente non avrei dato due spicci ha segnato uno step importante nella mia vita, sia irl che online, e non posso escluderlo dalla top 7 nonostante possa essere un titolo capace di far storcere il naso ai puristi del videogame, cosa che ovviamente io non sono. Che ci faccio qui?

- 3ª Posizione cementata senza problemi

Uno degli aspetti più importanti del gioco: le battute zozze.
I più attenti sapranno che ormai seguo con costanza soltanto tre serie videoludiche, e che Ace Attorney è una di queste. Difatti, questa posizione non è occupata da un solo titolo, ma da tutta la saga in generale, con sì i suoi alti e bassi, ma in toto vista come i diversi capitoli di una serie letteraria, ognuno di essi legato a doppio filo coi precedenti e coi successivi.
Diversi anni prima di riuscire a provarlo con mano, dal Giappone arrivavano notizie di un “simulatore d’avvocato”, una visual novel a tema investigativo/giudiziario; all’epoca trangugiavo libri gialli come noccioline, e rimasi ben deluso una volta giunta la conferma che quei giochi per il GBA non avrebbero mai lasciato il suolo nipponico.
La delusione si trasformò in euforia quando i giochi furono tradotti in lingua cristiana a un ritmo serratissimo, tanto che la notizia mi raggiunse quando si era già al secondo capitolo, che presi senza pensarci due volte e iniziai a giocare senza curarmi di seguire l’ordine prestabilito.
I punti di forza della saga, che mi attirarono a se praticamente subito e che sono stati ripetuti e straripetuti allo sfinimento, sono i soliti: un gameplay che ti prende per mano all’inizio, per poi chiederti di spremerti le meningi nei casi più avanzati, senza risultare mai ingiusto ma donandoti tutti i mezzi per riuscire a farcela con i tuoi soli neuroni; ancora mi pavoneggio del fatto che non abbia avuto bisogno di nessun tipo di guida nemmeno una singola volta in nessuno di questi giochi.
I casi in cui Phoenix Wright va a muoversi sono (quasi) tutti validissimi e credibili, con soltanto degli elementi di misticismo a fare da contorno che però sono sempre funzionali alla risoluzione dell’enigma, sempre e soltanto un mezzo per investigare ancora più a fondo, mai un deus ex machina: la soddisfazione di arrivare alla fine di un episodio è immancabile e genuina.
Ovviamente, a farla da padroni in un gioco del genere, sono i personaggi. Lo stesso Phoenix è un capolavoro di scrittura, trattato al tempo stesso sia come ultimo dei fessi che come legale leggendario, un avvocato esordiente che tenta di farsi un nome comportandosi nella maniera più professionale possibile, mentre la finestra sulla sua mente dà spazio a tutti i dubbi, incertezze, anche paure, ma soprattutto fiumi e fiumi di commenti sarcastici rivolti letteralmente a chiunque. È impossibile non empatizzare con lui perché il suo percorso e i suoi pensieri sono quelli di un qualsiasi everyman, e chiunque di noi al posto suo si comporterebbe come lui o penserebbe le sue stesse cose. Così, le innumerevoli volte che blufferà in tribunale, saremo più che entusiasti di salvarlo dalla situazione in cui lui stesso si è andato a impelagare, e mai come in quei momenti potremo avvertire che la vittoria è condivisa tra noi e lui.
Tutto il resto del nutritissimo, vastissimo cast non è da meno, e se anche volessi spendere un rigo per ognuno dei personaggi più indimenticabili, dovrei scrivere per ore. Basti dire che la stragrande maggioranza di loro mi ha impartito una grande lezione di vita, che tutt’oggi ricordo a me stesso e a chi mi sta attorno: “ognuno di loro (e ognuno di noi) ha i propri problemi”, qualcuno forse non così piccolo come vuol far credere, altri decisamente troppo grandi per essere gestiti da una sola persona. È un mantra che mi ritrovo a ripetere molto spesso, e i cui semi furono già gettati ai tempi di Justice for All, con le sue faide familiari, dolorosi incidenti, odiose rivalità e vite spezzate.
In ultimo, a un livello più personale, amo questo gioco per le ambientazioni, le musiche, in generale il mood che riesce a comunicarmi. Sullo sfondo di una Los Angeles del prossimo futuro (all’epoca, ora è invece del contiguo passato) ci muoviamo per studi legali e stazioni di polizia, ma anche lussuosi alberghi, studi cinematografici, ristoranti alla moda, fino ad arrivare a parchi sereni e templi di montagna. Ma in realtà non è Los Angeles, bensì Tokyo, perciò non sono da escludere (soprattutto nei giochi più recenti) visite a villaggi tradizionali, negozi di noodles e teatri rakugo (vai a capire di che si tratta). Il tutto condito da una soundtrack che non sfigurerebbe in una qualsiasi pellicola di investigazione, che assolutamente non mi metto ad ascoltare quando voglio ingannarmi di vivere in un film noir, per chi mi avete preso.
È un peccato che le uscite dei titoli stiano diventando sempre più dilatate man mano col passare del tempo, e che ormai sia un genere talmente di nicchia che dopo il quarto capitolo non abbiamo più ricevuto nemmeno una traduzione in lingua pizza&mandolino (in alcuni casi nemmeno in una lingua che non sia chinghi-chonghi, ma vabbè). Resta indubbio che, ogniqualvolta viene annunciato un nuovo capitolo oppure si decidono a tradurne uno Japan-only, il mio spirito investigativo freme e sono in prima linea per risolvere dei nuovi casi. E bearmi della mia intelligenza.

L’altro aspetto più importante del gioco: la fre-
- 2ª Posizione precedentemente sul gradino più alto del podio

Perché a Lyndis nun je devi cacà ercazzo.
“Madoooonna, che gioco da weeb!”
La mia passione per Fire Emblem è figlia di tempi che non ci sono più, ovvero i magici periodi in cui era la prassi scaricare rom GBA e DS, per “provare il gioco” e sicuramente poi “acquistarli”. Strano a dirsi, ma con Fire Emblem andò proprio così.
Quando si aveva fin troppo tempo libero tra le mani, durante i primi anni del liceo, ero costantemente alla ricerca di qualche titolo nuovo e stimolante da scoprire, volendomi già dare un tono esulandomi dalle bambinate di Mario & Co. Uno dei miei più stretti amici online allora mi suggerì di provare Fire Emblem, sia il 7 che l’8, entrambi per GBA: i precedenti titoli erano così di nicchia che non avevano lasciato le terre del Sol Levante, ma si era deciso di presentare i nuovi al pubblico occidentale, probabilmente seguendo la forte risonanza che avevano avuto Marth e Roy su SSBM.
“Dai ma che palle” diceva un giovane Nonno “dovrei giocare a un cazzo di gioco dove non posso muovermi liberamente, le armi si consumano, e i personaggi morti diventano inutilizzabili? Ma che ansia è ‘sta roba, voglio una cosa tranquilla.”
E capii che le cose tranquille non facevano per me, tanto che in tempo zero mi ritrovai ad acquistare copie originali non solo del 7 e l’8, ma anche del 9 per GameCube. Fui subito catturato da un mondo medievale che, alla stregua di Ace Attorney, era quanto più realistico possibile (anche per gli aspetti di cui sopra) con soltanto alcuni elementi fantasy che non inficiavano la mia esperienza di gioco: mostri e draghi sono piuttosto rari, considerati dai personaggi miti o superstizioni piuttosto che entità concrete; la magia non è alla portata di tutti, ma viene giustificata come frutto della scienza e della ragione, mentre i poteri curativi attingono dalla fede; diverse etnie metà umani e metà animali vengono introdotte più che altro per insinuare sottotrame antirazziste; in generale i protagonisti non affrontano un viaggio epico per buttare un anello in un vulcano o roba del genere, ma sono impegnati in un vero e proprio conflitto armato che coinvolge diverse nazioni, mentre sullo sfondo possono diramarsi innumerevoli intrighi politici e sotterfugi di palazzo, che verranno prima o poi risolti con le armi.
Visto sotto una lente meno superficiale, Fire Emblem è un racconto sporco, a tratti crudo, che spesso non edulcora gli orrori delle guerre narrate: saccheggi, eccidi, esecuzioni, tradimenti, codardie, i toni sono più vicini a un romanzo storico che a un’opera eroica, e questo è ancora più vero nella duologia che vede protagonisti Ike e i suoi mercenari, con un background ancora più popolare rispetto ai lord degli altri giochi, in contrasto alla nobiltà avida di potere e al clero corrotto.

In giochi come questo la motivazione è tutto.
Ambientazione vincente a parte, preferisco non perdere tempo più di tanto a discutere di trame o personaggi riusciti o meno, ma vado dritto a parlare del mio aspetto preferito della serie: è un gioco terribilmente cerebrale. Possono riempire la serie con sempre più waifu, tette, support senza senso, romanticherie inutili e protagonisti autoinseriti, ma il midollo è sempre quello: scacchi, matematica e neuroni. Anche in questo caso i primi capitoli dei primi giochi ti prendono per mano per poi buttarti in acqua per insegnarti a nuotare, e se è vero che i titoli sono sempre più pieni di paillettes, la loro presenza è direttamente proporzionale a un map design sempre più originale e complesso, che richiede via via sempre più sforzo e che fa il possibile per farti uscire dalla tua comfort zone. Indubbiamente l’appagamento di arrivare alla fine di alcune mappe bastarde è difficile da descrivere per chi non ci è passato.
Come già scritto nel topic dei giochi del decennio, è stato uno dei giochi narrativamente peggiori ma dannatamente impegnativo a farmi capire cosa amo davvero di Fire Emblem: lo spingersi oltre i propri limiti. L’Eternal Stairway di FE Fates la ricorderò a vita come un totale incubo sia ingame che fuori, circondato da orde di massicci cadaveri semoventi e bocche della verità spara-massi, con rinforzi nemici letteralmente infiniti e soprattutto esperienza guadagnata prossima allo zero, che rendeva il capitolo 21 di (Lunatic) Conquest una vera battaglia di logoramento per la sopravvivenza. Personalmente, è stata la prova videoludica più difficile che abbia mai dovuto affrontare, e che probabilmente si è mangiata una buona parte delle mie sinapsi, ma la pura estasi di vedere le parole “capitolo completato” ripagarono ampiamente qualche terminazione nervosa irrimediabilmente maciullata e un’emicrania da record. Il fine ultimo che ho cavato da Fire Emblem è una sfida di intelligenza lanciatami da me medesimo, a difficoltà sempre più demenziali, per dimostrare a me stesso qualcosa, probabilmente che nella mia scatola cranica c’è della materia grigia ancora capace di funzionare egregiamente.
Ho adottato questo mindset anche in ambito lavorativo, dove oltre a dover palesare le mie capacità a me stesso, è ancora più importante che si palesino a chi mi sta attorno, nonostante abbia lo svantaggio costante di non trovarmi minimamente a mio agio nella mia posizione.
Ma Fire Emblem insegna a fare anche questo, a spingere sempre di più, sempre più avanti, sempre più oltre, fino ad arrivare alla fine dove non puoi fare altro che pensare “porco cazzo ma che gran cervello che ho”.
Anche in questo caso, per i sopracitati motivi, non riesco a fare una scelta e inserisco la saga in toto, pur se dovessi proprio scegliere i migliori sarebbero probabilmente il 7 e il 9/10. E forse adesso chi mi invita più o meno gentilmente a riprendere in mano Three Houses (senza fare nomi) potrà capire perché non rusho il gioco in modalità normale per godermi la trama: tutte le sfaccettature della storia sono importanti sì, ma per me è ancora più importante finire il gioco seguendo le mie regole autoimposte, e per fare questo ho bisogno di una mole di tempo libero che ormai è solo un ricordo. Vabbè aspettiamo agosto va’.
Non potevo ignorare il duca Oliver, che qui ci dà lezioni su come rompere le gengive anche se sei un’unità mediocre.
- 1ª Posizione a sorpresa?

Forse voi davate per scontata questa mia prima posizione, invece io ad essere sincero resto stupito di questo risultato, e di come sia stato capace di scalzare una serie oggettivamente più solida sotto diversi punti di vista come Fire Emblem. Ne abbiamo discusso a fondo tante e tante volte, conosciamo bene la china discendente che il brand dei mostri tascabili ha imboccato da quasi un decennio a questa parte, sappiamo che i giochi più attuali sono un enorme downgrade, mentre guardiamo con un occhio più critico e cinico i giochi ormai datati degli anni d’oro. Pokémon è lontano anni luce dall’essere una serie perfetta, eppure in me come in tanti altri scatta ancora una scintilla, forse più fievole e più pallida, ma resta in ogni caso onnipresente. Basta questo per metterlo sul gradino più alto del podio?
In realtà è quanto di più logico possa esserci, parlando di una serie che gioco insistentemente da quando avevo 8 anni, che mi ha accompagnato per tutto il mio percorso di vita fino ad oggi, e con la quale in tutta probabilità ho accumulato complessivamente più ore di gaming totali.
Finanche i primissimi ricordi legati a Pokémon sono ancora vividi, probabilmente proprio in virtù del fatto che non li ho mai abbandonati, dato che ciclicamente andavo (e vado) a rispolverare tutta una serie di emozioni, sensazioni e situazioni connesse inevitabilmente ai diversi periodi storici della mia vita, che annullano inesorabilmente qualsiasi tentativo di vedere scalfito l’alloro del primo posto. A che serve stilare per l’ennesima volta una pleonastica lista di pro e contro, quando basta accendere un vecchio gioco, muoversi di qualche pixel e ascoltare un paio di note in 8-bit per ritrovarsi catapultato nel corpo del se stesso bambino di più di 20 anni fa?
Era il 1999 quando facevo conoscenza coi Pokémon, un boom pazzesco che deflagrò contemporaneamente sotto forma di cartoni animati su Italia 1, figurine, carte collezionabili, e ovviamente videogiochi. Furono le mie due cugine (le stesse che mi introdussero al Nintendo 64 prima, e al Nintendo GameCube poi) a farmi scoprire che le avventure a Kanto non erano una prerogativa di Ash e del suo Pikachu, e che il GameBoy e una cartuccia di colore blu potevano essere un foglio bianco su cui scrivere la propria personalissima storia con il proprio team preferito. Cosa di cui non ci rendemmo conto subito, visto che la nostra occupazione principale era picchiare Pidgey e Rattata con “Bolla”, nome dato a uno Squirtle overlivellato che amava usare l’omonima mossa. Mesi dopo, in occasione della mia prima comunione, non ebbi alcun dubbio su cosa avrei voluto in regalo: conservo ancora oggi quel GameBoy Color giallo acceso e quella cartuccia di Pokémon Blu, sulla cui boxart troneggiava un violentissimo Blastoise che mi sarei poi ritrovato a usare ingame come mio unico alleato - i bei vecchi tempi degli starter overleveled. Celestopoli, Aranciopoli, la M/N Anna, Lavandonia, le Isole Spumarine, a ognuno di questi posti associo un ricordo cristallizzato nella mia memoria, dei rapidissimi flashback che mi fanno tornare indietro con la mente per delle frazioni di secondo, una sensazione stranissima da descrivere: non sono vere e proprio reminiscenze, quanto più fotografie di attimi all’epoca normalissimi, una cornice di estati passate che va ad incastonare il dipinto vero e proprio, ovvero lo schermo sempre troppo scuro di quel maledetto GameBoy.
Le stesse vibrazioni le avverto quando ripenso a Pokémon Oro, regalo di vecchie zie, padrone assoluto assieme ad Argento del tempo libero mio e dei miei compagni delle elementari, tutti presi da quella novità assoluta (non ancora prassi) che era una generazione aggiuntiva a Rosso e Blu. Forse per la maggior mole di tempo spesaci, stavolta in compagnia di numerosi amici, solo in tempi relativamente recenti mi sono reso conto di come questi flashback siano associati a ogni singola località di gioco, da Borgo Foglianova al Monte Argento: quando poso lo sguardo su una qualsiasi città o percorso, con la coda dell’occhio posso vedere intorno a me pomeriggi assolati a casa di amici, o mattinate uggiose da anziani parenti, parchi, spiagge, piazze, tutti posti in cui sono stato e in cui probabilmente non saprei come tornare, vedo una mattina di primavera nella casa dei miei genitori 20 anni fa, ma se cerco di mettere a fuoco tutta l’illusione svanisce, e mi ritrovo catapultato indietro nel 2021.

Prevedibilmente, Pokémon Rubino segnò una vera e propria diaspora, e non soltanto perché nel frattempo si era passati alle scuole medie, ma in generale perché la risonanza di Pokémon andava scemando, e la sua utenza si affacciava alla prima adolescenza. Andando (all’epoca) controcorrente, la terza generazione con i suoi profondi cambiamenti, come profondamente stava cambiando la mia quotidianità, mi conquistò totalmente con una inedita originalità, riconoscibile non solo nella serie principale ma anche in due signori spin-off come Colosseum e Gale of Darkness. Oggi trovo risibile l’idea che l’uscita di Rosso Fuoco e Verde Foglia coincidesse con una ipotetica “chiusura del cerchio con ritorno alle origini” che avrebbe sancito la fine di una serie che praticamente era soltanto all’inizio.
Saltando a Diamante e Perla, potrei ammettere che subconsciamente non amo questi giochi perché li associo a un periodo non propriamente roseo della mia vita, e questa serpeggiante sensazione di sgradevolezza per poco non mi fece abbandonare definitivamente la serie; a salvarmi furono proprio HeartGold e SoulSilver, sia perché sono tutt’oggi giochi eccellenti, forse i migliori della serie, sia perché tutti i tasselli che mi impensierivano negli anni passati sembravano essere finalmente andati al loro posto. HeartGold è probabilmente il mio gioco Pokémon preferito, associato a degli anni del liceo più felici che abbia mai vissuto, a sua volta remake di un gioco emblema della mia spensieratezza infantile.
Bianco & Nero, coi loro sequel, hanno assunto un’inedita funzione di “segnale di riconoscimento” tra le aule universitarie del primo anno, e sono stati fautori di nuove, salde amicizie in maniera diretta o indiretta, alcune delle quali mantengo ancora oggi, e che portarono all’exploit di XY di cui ho parlato nel topic del decennio, l’ultima coppia di giochi originali (assieme ai remake Omega Ruby e Alpha Sapphire) che ha rappresentato dell’intrattenimento sociale solido e duraturo, sia con i suddetti compagni di corso che con i tipi loschi di NDZ.
La settima generazione tutta è forse l’unica invece che, dall’inizio alla fine, è stata dominata dalla solitudine, ed è anche per questo che la ricordo più freddamente, non avendola legata a nessun momento particolarmente memorabile a parte serate di relax estremo; Scudo era sulla buona strada per fare la stessa fine, se non fosse che lo associo ai 10 giorni di convalescenza post-trapianto in cui mi ci sono chiuso (ehi, sapete che ho fatto un trapianto di capelli?), alle spassose serate di cooperazione con gli NDZiani, e in generale a un’atmosfera che trovo più gradevole nonostante le immense lacune.
In mezzo a tutto questo c’è stato un Pokémon GO che ha segnato un inaspettato ritorno di fiamma per molti, e l’estate 2016 è stata bizzarramente fuori di testa per il successo che ne è scaturito, probabilmente il momento in cui c’è stato un punto di svolta che ha contribuito per molti a scardinare la convinzione che Pokémon fosse ormai una serie soltanto ad appannaggio per i bambini, e che ha fatto ammettere a molti una passione per la serie che prima tenevano segreta.
Tutto questo sproloquio per dimostrare, a volo d’uccello, quanto Pokémon sia stato una presenza costante nella mia vita, sia in momenti belli che in momenti brutti, e che forse continuo a tornarci, iniziando e reiniziando partite, per provare le stesse sensazioni che ormai sono irrimediabilmente perdute e ineguagliabili, per avvertire nuovamente una stessa leggerezza e spensieratezza inevitabilmente schiacciate da... tutto il resto. E forse è questa la condanna di tutti i fan di Pokémon, divisi tra una sensibilità nostalgica di un mondo passato visto tramite degli occhiali colorati di rosa, e una insaziabile voglia di innovazione in una serie ormai fossilizzata dentro se stessa.
O almeno, questa è sicuramente la mia.
Scrivi wot come una farfalla, rompi i maroni come un’ape.
~Dalai Lama
